sabato 24 giugno 2017

Visita al CAS “MONDONUOVO” di Testa dell’Acqua (SR)

“Sono molto contento di essere arrivato in Italia ma ancora devo conoscere gli italiani” ci dice J., originario del Bangladesh, arrivato ad inizio aprile al porto di Augusta. J. vive da due mesi nel CAS gestito dalla cooperativa “Mondonuovo” a Testa dell’Acqua, una frazione di Noto, in provincia di Siracusa che non supera di molto i 500 abitanti, situata a circa 15 km di distanza sia da Noto che da Palazzolo Acreide. 

Il CAS "MONDONUOVO" a Testa dell'Acqua (SR)


Il centro si trova sulla strada per raggiungere il piccolo centro abitato, seguendo le indicazioni per la “Casa di sollievo per anziani” poiché la struttura era prima adibita a casa di riposo; dal 2014, dopo alcuni lavori di ristrutturazione, è stato adibito a CAS per adulti maggiorenni, con l’autorizzazione ad ospitare fino ad un massimo di 25 persone, regola ormai sistematicamente disattesa negli ultimi anni. Ci rechiamo presso il centro nel mese di aprile e conosciamo il cuoco e diversi ragazzi ospiti, mentre riusciamo ad incontrare il responsabile solo nella nostra seconda visita di giugno.


Un sistema che dà i numeri

“Quando ho deciso di aprire questo centro non è stato facile: la gente del vicinato ha preso questa notizia con allarmismo ed hanno pure fatto una raccolta firme per impedirlo. Non riesco a capire cosa può passare nella loro testa. Poi sono iniziati ad arrivare i primi ospiti, e dopo più di un mese in paese mi hanno chiesto com’era finita questa storia del centro. In realtà nessuno si era nemmeno accorto che i migranti erano già arrivati”. Il giovane gestore del centro si rende subito disponibile a parlarci della struttura, arrivando nelle prime ore del pomeriggio con dieci nuovi ospiti provenienti dal porto di Augusta: “Sono sbarcati il 12 giugno, oggi ne abbiamo 16. Alcuni rimangono ben oltre la settimana nella tendopoli del porto” - ci racconta - “l’unica cosa che hanno inizialmente è il numero identificativo che è lo stesso del braccialetto ricevuto al porto. Tra 3 o 4 mesi riusciremo a compilare il modello C3 ed allora sarà quello il loro documento fino alla risposta della Commissione Territoriale. Di permessi di soggiorno o codice fiscale non se ne parla neanche”.

Il centro è suddiviso in due piani, con 16 camere dotate di letti a castello, 8 bagni, un piccolo ufficio adibito anche ad infermeria, una cucina e una grande sala da pranzo/soggiorno con tv che si affaccia su una terrazza. Tutto intorno solo campagna e cave, con l’unica strada che si snoda fra le colline per raggiungere il piccolo centro abitato con il market, la posta e alcune case dopo due chilometri. Essere confinati qui significa rimanere invisibili e sobbarcarsi chilometri e chilometri a piedi sotto il sole per poter avere un minimo contatto con persone che non siano gli altri ospiti del centro o per prendere il bus che porta a Siracusa, ma la Prefettura sembra prediligere i centri così isolati. 

Nella struttura ci sono attualmente 55 migranti, quindi più del doppio delle persone previste; il responsabile ci dice che questa situazione di sovraffollamento continua da anni ed interessa anche le strutture di accoglienza vicine: “Sono davvero in difficoltà quando mi arrivano richieste per ospitare così tante persone. Il discorso è sempre quello dell’emergenza, ma numeri così alti non posso gestirli con lo stesso personale e la stessa modalità. Qui siamo l’appoggio del porto di Augusta e la pressione è continua”. Ci spiega che i dipendenti sono 7, compreso il cuoco, una mediatrice ed un’operatrice che due volte alla settimana organizza un corso di italiano all'interno della struttura. Nelle nostre due visite incontriamo però solo il cuoco, addetto anche alla pulizia del centro, che si alterna con un altro operatore nel pomeriggio. 

L’assistenza legale è affidata ad un avvocato che si occupa prevalentemente dei ricorsi contro il rigetto delle domande di protezione, mentre l’informativa e l’orientamento legale sembrano essere affidati agli operatori con il supporto del mediatore. Con i ragazzi avremo modo poi di confrontarci meglio su questo aspetto. “Per me chiunque può passare di qui e conoscerci o dare una mano, non ho nulla da nascondere ma mi trovo a gestire tutto sempre nell'urgenza. Ho cercato di iscrivere i ragazzi a scuole di italiano in città ma mi hanno fatto problemi per via dei documenti, adesso sto provando a prendere accordi con le scuole qui in paese per fare dei corsi. Per quanto riguarda il lavoro credo che davvero la difficoltà di trovarne uno sia enorme per tutti e ovviamente più sono le persone che dobbiamo ospitare meno è il tempo che possiamo dedicare ad ognuna”, continua il responsabile. Le nostre osservazioni sulla necessità e l’obbligo di mantenere gli accordi previsti e una gestione professionale, nonché la possibilità di pensare ad un’altra forma di accoglienza sembrano però essere già state archiviate e la logica del business aver avuto ancora la meglio: “Gestire uno Sprar significa dover anticipare ancora più soldi, lo so perché mi sono confrontato con altri che lo stanno facendo. Per me è già critico non poter pagare puntualmente alcuni dei miei dipendenti, e non lo trovo nemmeno giusto. Qui i soldi arrivano in base alle presenze, e all’inizio avevamo anche 'solo' 20 persone, ma ora è un caos totale”. 


Da dove ricominciare?

I numeri si trasformano finalmente in persone, quando lasciamo l’ufficio e i ragazzi iniziano a chiedere informazioni o ad invitarci a sederci con loro all’esterno, dove già abbiamo passato diverse ore in mattinata. Dopo due mesi rivediamo S., che è qui da un anno e come unica novità ha una risposta negativa da parte della Commissione: “Il responsabile ha detto che farà vedere la risposta all’avvocato. Io l’ho tradotta anche con l’aiuto di internet ma non so altro”. Come lui sono in tanti a chiederci informazioni sui documenti: un ragazzo nigeriano ci mostra il verbale della sua audizione, tradotto solo in lingua italiana “dopo l’intervista il traduttore mi ha riletto tutto in inglese ma di scritto ho solo questo, è giusto? Io ho perso tutti i documenti quando ero in prigione in Libia, ci sono stato talmente tanto che a volte non mi ricordo nemmeno in che mese siamo quando mi sveglio” ammette. Del suo passaggio in Libia non c’è però traccia nel verbale di audizione, in Commissione nessuno l’ha chiesto e lui ovviamente si è limitato a rispondere alle domande. “Io sono stato in Libia per 6 mesi che mi sono costati anni di vita e lo dirò all’intervista”, spiega invece C., che dal Bangladesh ha ritrovato qui diversi connazionali, “quando non ci torno con la testa sono i dolori rimasti dalle botte che ho preso a farmi ricordare l’inferno che ho lasciato. Anche adesso faccio fatica a camminare.”

Attualmente le nazionalità prevalenti nel centro sono Bangladesh e Pakistan, insieme ad altri migranti provenienti dalla Nigeria, dal Mali, dal Ghana, dalla Libia e un ragazzo iraniano. Almeno quattro degli ospiti presenti sono passati dal carcere, dove hanno passato periodi che vanno da mesi ad un anno perché accusati di essere presunti scafisti. Sappiamo dal responsabile che altri sono invece stati “testimoni”, ma “di sbarchi differenti”, ci viene precisato. Storie di violenza, ricatti, povertà ed abusi che sono iniziate nei paesi di origine e sono continuate spesso anche in Italia quindi, dove pure dopo il carcere continua la discriminazione e l’abbandono. 

“Riceviamo ogni mese il pocket money, poi ci danno un aiuto anche per comprare il telefono”, racconta K, “e finalmente possiamo comunicare”, aggiunge indicandoci una fila di persone sedute davanti al televisore ma completamente assorte ed isolate davanti ai loro cellulari. Anche se distanti pochi metri, sembrano lontanissimi dai ragazzi appena arrivati dal porto ed in attesa all’ingresso, che esplorano in silenzio ma con curiosità il nuovo ambiente, forniti di tute e felpe invernali che ci chiediamo come possano essere distribuite in piena estate e con più di trenta gradi. 

“Qui ci dividiamo tra nuovi arrivati e vecchi”, ci dice J, che per tutta la mattinata ha continuato a guardare con sorpresa alla visita di “italiani”; “le nostre storie vengono considerate sulla base dei documenti che abbiamo, non abbiamo o stiamo cercando di ottenere. Molti di noi si sono dati degli altri riferimenti per cercare di ricostruirsi un futuro e a capire da dove ricominciare. Ci proviamo e speriamo di non essere totalmente soli.”   

Lucia Borghi

Borderline Sicilia Onlus