martedì 16 agosto 2016

Uomini a metà

Sono le sette di sera ma il sole batte ancora forte. Non c’è un filo d’ombra sulla statale che taglia i campi per collegare il piccolo centro di Marina di Modica alle cittadine dell’interno. 
S. sfreccia davanti a noi sulla sua bicicletta, madido di sudore, con uno zaino sulle spalle ed una gran fretta di portare a termine il prima possibile la sua corsa obbligata verso il centro. Come altri 27 migranti, S. è da poco alloggiato in uno dei nuovi CAS della provincia di Ragusa, appena aperto dalla Cooperativa Azione Sociale, fino al mese scorso ente gestore dell’hotspot di Pozzallo e di uno Sprar nella città di Modica.

Ph. Lucia Borghi

Si tratta di una ex masseria ubicata tra capannoni e serre e distante diversi chilometri da Marina di Modica, raggiungibile solo percorrendo una strada non asfaltata che si dirama dalla statale e si addentra con diverse curve nella campagna tutt'intorno. 

Appena giunti sul posto ci presentiamo ad un gruppetto di 5 migranti seduti all'esterno della struttura e siamo subito raggiunti da una responsabile che ci invita a chiedere un’autorizzazione per poter ritornare e visitare il centro. Ci dice che il CAS è aperto da poco più di un mese e sono ancora in start up. Sono consapevoli della posizione un po’ isolata della struttura e prevedono di organizzarsi meglio con dei pulmini per poter portare i ragazzi in città. Ad oggi ci sarebbero 28 uomini adulti, alcuni appena arrivati da Pozzallo. Di più dalla cooperativa non ci è dato sapere; nei giorni successivi cerchiamo di contattare telefonicamente e con un messaggio scritto il responsabile, ma ad oggi non abbiamo ancora avuto risposta. 

Riusciamo a scambiare qualche parola con alcuni migranti presenti: subito ci dicono che siamo i primi a visitarli, oltre agli operatori, dopo un mese che si trovano in questo posto. Sono felici per questo perché riferiscono di sentirsi fuori dal mondo e soffrono moltissimo perché costretti a vivere in mezzo al nulla. Provengono principalmente da due diversi CAS, ora chiusi: quello di Chiaramonte Gulfi gestito dall’Opera Pia Istituto Rizza Rosso e quello di Modica in mano alla Cooperativa Virtus. La maggior parte di loro è da alcuni mesi o anni in Italia, altri sono arrivati di recente e trasferiti dall’hotspot di Pozzallo direttamente qui. Prima di doverci salutare, ribadiscono che tra tutti i presenti è forte l’insofferenza e la sensazione di annientamento prodotta dall'essere isolati, e che molti dei ragazzi passati da qui hanno deciso di allontanarsi autonomamente piuttosto che “impazzire nel giro di pochi mesi”.

Sappiamo che molti migranti non hanno scelta ma fortunatamente una grande determinazione; alcuni di loro, sopravvissuti alle traversate, hanno aspettato per anni un documento cercando di sopravvivere ed inserirsi in piccole comunità. Anche in questo caso, cercano vie d’uscita all'invisibilità ed all'esclusione forzata a cui li costringono le prassi di “malaccoglienza” del territorio, seppur con grande fatica. Ed è così che ritroviamo alcuni dei migranti incontrati nel CAS per le vie di Marina di Modica, dove si recano quasi quotidianamente per sbrigare piccole commissioni, come ricaricare il cellulare o comprare beni di necessità, o semplicemente per avere un contatto con altre persone, nonostante i chilometri e le ore di marcia sotto il sole che li separano dal centro. 

                                                   Ph. Lucia Borghi

“Non chiediamo di abitare in case di lusso o avere chissà quali cose. Accettiamo pure di stare in camere da sei persone (dove, essendo in campagna, ogni tanto entra pure qualche serpente), di non avere dei bagni decenti e di mangiare lo stesso cibo di scarsa qualità che avevamo all’hotspot di Pozzallo. Ci basta l’essenziale. L’unica problema è che siamo davvero isolati e lontani da tutto”, ci dice uno di loro. 

Il trasferimento nel nuovo CAS ha costretto molti a rescindere i deboli ma pur esistenti legami creati con il luogo in cui sono stati per mesi, nel tentativo di inserirsi nella nuova comunità di approdo. Per altri ha semplicemente allungato le distanze dai “datori di lavoro”, nel senso che per racimolare qualche soldo con l’elemosina o il lavoro nero in campagna, ora devono percorrere più chilometri ed avere una bici. Situazioni di fragilità e sfruttamento sostituite quindi da una nuova, ancora più degradante e pericolosa. Tra i nuovi “ospiti” del CAS ci sarebbero almeno cinque migranti registrati come maggiorenni ma che da mesi sostengono di essere minori, ai quali è stato detto di aspettare la Commissione per chiarire definitivamente la loro posizione. Intanto, invece che una maggior tutela, tocca pure a loro un lungo periodo di abbandono, invisibili alle istituzioni, alle ONG e a tutti i cittadini. Così è anche per altri particolarmente vulnerabili, in possesso di certificazioni da parte di psicologi e psichiatri che li hanno presi in carico mesi fa; il trasferimento in un centro Sprar non pare essere un opzione nemmeno considerata. 

“Al centro dormiamo, mangiamo e se non ci facciamo i chilometri la sera ci ritiriamo con il buio, perché all'esterno siamo letteralmente assaliti da zanzare e mosche. Ci danno il pocket money con cui possiamo ricaricare il cellulare ma non abbiamo mai fatto lezione di italiano o altro. Ci sono molti posti vuoti, e questo significa che arriveranno altre persone, così saremo ancora meno considerati”, prosegue A., in Italia da più di un anno. “Un gruppo di circa 15 ragazzi ha protestato senza violenza per due volte, chiedendo il trasferimento in un posto meno isolato: per tutta risposta è arrivata pochi giorni fa la polizia. I ragazzi sono stati portati a Ragusa, dove è stato loro detto di firmare un foglio scritto in italiano. Molti non riuscivano a leggerlo ed è stato loro detto di firmare che non c’erano problemi, era un foglio per essere trasferiti. Poco dopo si sono ritrovati in mezzo alla strada; soltanto in tre sono ritornati con il bus al centro, dopo aver fatto diverse tappe, e hanno capito che il foglio significava che erano stati buttati fuori. Cancellati dalle liste del cibo e dalla possibilità di avere un posto”. 

Uno dei tre è nel gruppo con cui parliamo e ci allunga la revoca dell’accoglienza ricevuta. Quali tentativi sono stati fatti per dialogare e capire le esigenze dei migranti prima dell’intervento della polizia? Quali informazioni sui diritti all'appello contro il provvedimento o in merito alla scelta di un posto simile per ospitare persone e facilitare il loro inserimento nella comunità locale? A detta dei ragazzi, nessuna. Vedremo cosa replicheranno i responsabili. Episodi del genere si ripetono sempre più spesso, quando la mancanza di una presenza e di un lavoro quotidiano di dialogo lascia il via libera all'uso delle soluzioni estreme per allontanare chi non si adatta passivamente alle imposizioni dall'alto. Vista la mole degli arrivi, nuove entrate rimpiazzeranno i migranti allontanati, nel totale disinteresse dei loro diritti. 

La scelta di un posto tale per l’apertura di un nuovo centro mostra molto chiaramente come l’obiettivo  non sia l’inclusione sociale e l’interazione dei migranti con la comunità locale, ma al limite una loro assistenza di base. L’invocazione del perenne stato d’emergenza non giustifica la scelta di un luogo decisamente inadatto, la mancata considerazione di vulnerabilità e necessità dei migranti, nel silenzio assordante di istituzioni e organizzazioni che si vantano di tutelarne i diritti e invece sembrano ricavare spesso solo visibilità e profitti dalla disperazione di chi non ha nessun potere. Rimaniamo in attesa di parlare con chi sostiene tali prassi per chiedere spiegazioni. 

“Probabilmente ci considerano uomini a metà, senza altre esigenze che quelle di mangiare e dormire” dice C. prima di salutarci. “Metterci in un posto simile significa non capire che siamo persone”.

Lucia Borghi

Borderline Sicilia Onlus